¿Essere o apparire?
articolo di Tania Belli
26 gennaio 2007
“Sono consapevoli gli ecuadoriani di quanto di prezioso e raro possiedono?”.
“Si rendono conto che il verde che io sto guardando fuori dal finestrino è autentico, verace e di una intensità talmente carica di colore da fare invidia finanche al migliore dei nostri campi di calcio?”
“Lo sanno, gli abitanti del generoso Ecuador, che altrove, ad esempio nella mia Europa, non è così semplice far nascere frutta e verdura, come, al contrario, è estremamente facile riuscirvi stando appesi a dondolare sull’equatore ed inzuppandosi con la copiosa acqua che il cielo gli fa piovere addosso?”. “Cioè sono al corrente che il detto-verità secondo cui piantando un palo nella nera e feconda terra lavica ecuadoriana, prima o poi ne nascerà un frutto, però non è ugualmente valido in altri luoghi, dove la vita non è in grado di rigenerasi neppure dal seme di uno dei suoi succulenti prodotti, sebbene ben piantato nel terreno ed innaffiato con costanza?”. In Ecuador, non soltanto tutto ciò è cibo di leggende e racconti popolari dati in pasto alla tradizione ed al costume, quanto, soprattutto, rappresenta la reale ambrosia di una agricoltura che, sia essa di sussistenza che rivolta al mercato, benché abbandonata a se stessa è capace di auto-produrre, come quel campo di banane la cui coltivazione è stata interrotta da tempo, ma prosegue a sfornare allettanti platanos.
Un agevole e spontaneo rinnovarsi dell’ecosistema naturale, quindi, che in Ecuador è manifestato spudoratamente anche dalle tinte vivaci, accese da un sapore altrettanto profondo e sapido, della gran parte dei suoi frutti, quei doni di Gaia, madre protettrice ed amorevole, che sono poco noti, se non pressoché sconosciuti in altre sue latitudini. Latitudini nel cui suolo, infatti, non si rinviene la sorprendente cifra di sette consecutivi strati fertili, come uno studio svolto ad hoc da un istituto di ricerca israeliano (ed è risaputa la pignola ed acuta precisione del popolo ebraico!), ha svelato che accade al di sotto della superficie straricca di humus dell’Ecuador.
“Qualcuno, inoltre, ha mai riferito agli ecuadoriani che gli strabilianti panorami di cui si compone la mia abituale scenografia durante gli interminabili trasferimenti in pullman, non è così scontata e normale anche in altre zone del pianeta?” “Ovvero che la fatica di vincere il tempo, che, al momento di partire per un impegnativo viaggio, appare come una gigante vetta da scalare, qui è quasi del tutto debellata dalla dolce medicina di un paesaggio da mille ed una notte?”
Domande, queste appena riportate, con le quali, appena un mese addietro, ogni volta che mi mettevo in cammino per raggiungere una nuova meta del mio Ecuador-tour, cercavo di intrattenere i miei pensieri, scossi dalle imponderabili antinomie di un paese in cui il tutto (un tutto decisamente completo sotto l’aspetto delle risorse ambientali e non) è stato ridotto al niente.
Domande che ancora oggi mi ronzano nel cervello, quando nei suoi neuroni compare quell’allarmante ed incomprensibile dato che ho sempre cercato di cancellarvi: il 60% della popolazione dell’Ecuador vive nella povertà. Come può essere risolto il dilemma per cui esclusivamente una minoranza di cittadini con passaporto ecuadoriano ha accesso e gode dell’inestimabile patrimonio naturale che il proprio paese racchiude nel suo capiente scrigno?
Forse lo si potrebbe risolvere con una semplice, ma onnicomprensivo parola, la politica (ma quella con la “p” minuscola), ha commentato qualcuno; un'altra parola, per converso, mi ha suggerito qualcun altro: cupidigia.
Con la misconosciuta necessità di far riverberare il bagliore della verità in coscienza e consapevolezza, a me verrebbe di gridare!